Il Natale è una festa attesa: piace, scalda, umanizza.
A differenza della Pasqua che rappresenta il massimo grado di amore ipotizzabile (qualcuno decide di morire per me, di salvarmi, di liberarmi, per rendermi ciò che non è in mio potere essere), il Natale è l’espressione più autentica della verità.
San Giovanni scrive nel Prologo del suo Vangelo che In principio era il Logos e il Logos era presso Dio e il Logos era Dio… E il Logos si fece carne divenne e pose la sua tenda in mezzo a noi. (Giovanni 1, 1.14) Per vivere il Natale non occorre una conversione moralistica, esteriore, formale. Non dobbiamo impegnarci ad essere più buoni, come se la bontà avesse una misura da raggiungere. Qui occorre scoprire la verità della nostra condizione. Chi siamo veramente, attraverso il Dio nascente. Ciò che era perfetto, il Logos, ha accettato di entrare nell’imperfezione, di prendere sembianza umana. Questo è lo scandalo dell’Incarnazione: il Logos perfetto, infinito, eterno si fa carne e accetta di condividere uno spazio finito, un mondo limitato, essere rinchiuso in una lingua, in una cultura, in una storia.
Anche uno scrittore agnostico come Jorge Luis Borges ha colto il senso di questa novità. In una sua poesia pubblicata nel 1969 e intitolata Giovanni 1,14 si legge:
Io che sono l’È, il Fu e il Sarà
accondiscendo al linguaggio
che è tempo successivo
Vissi prigioniero di un corpo e di un’umile anima.
Appresi la veglia, il sonno, i sogni,
l’ignoranza, la carne,
i tardi labirinti della mente,
l’amicizia degli uomini
e la misteriosa dedizione dei cani.
Fui amato, compreso, esaltato e appeso a una croce.
Perché festeggiare oggi il Natale, quale motivo abbiamo noi di festeggiare? Quale verità ci sarà offerta tra i mille rumori di un mondo che rifiuta Cristo? Questa è la verità per ciascuno di noi: la verità è la povertà. San Francesco quando arriva a Greccio chiama la povertà la più santa tra tutte le virtù. Dio che si fa uomo non viene semplicemente ad abitare in mezzo a noi, a porre la sua tenda tra le nostre tende. Dio che si fa uomo porta nel mondo la sua relazione con se stesso, con gli altri e con Dio. Gesù è povero, povero tra i poveri. Occorre riscoprire la povertà che non è mancanza di cose ma relazione con le cose. E con le persone.
Che cos’è la povertà? Il termine “povero” discende, etimologicamente, dal latino pauper o pauperus che, a sua volta, richiama un altro vocabolo: pauca e pariens, letteralmente “che produce poco”. La povertà era anticamente così già messa in relazione con il suo opposto, la fertilità. Nel campo agricolo si è consapevoli che il raccolto è strettamente legato alla generosità della terra: in parte il contadino semplicemente “assiste” la natura. Il povero non è quindi un misero. Nel mondo romano antico pauper era chi aveva un tenore di vita molto sobrio, ma decoroso, dignitoso, mentre miser descriveva qualcuno che viveva in modo già indecoroso e privo di dignità, anche solo dal punto di vista materiale. Per Tommaso D’aquino, la povertà rappresenta la mancanza del superfluo, mentre la miseria indica la mancanza del necessario. La povertà è la condizione umana. Accettiamo facilmente di essere poveri? Accettiamo di essere bisognosi? Accettiamo di mancare?
Nell’attuale mondo occidentale, la povertà è considerata come la conseguenza delle colpe e delle inettitudini degli stessi poveri, colpevoli di venire meno al dovere di possedere sempre nuove merci. Nel mondo consumistico, il povero è colui che non ha, colpevole di non spendere abbastanza. Non c’è posto per i poveri, sono un peso, occorre lottare contro la povertà, perché il povero non è un ricco. Chi ha, vive nel benessere, lontano dalla povertà. Non cerchiamo tutti un arricchimento anche nelle esperienze che facciamo? Non abbiamo una mentalità capitalista anche con gli affetti che frequentiamo? Chi accetta oggi di essere povero e insegna agli altri l’arte della povertà?
Se con la crescita esponenziale del benessere avessimo perduto la capacità di essere poveri? La povertà è umanizzante, ci mette nella giusta direzione, forse l’unico vero autentico argine alla miseria. Riconoscere e valorizzare l’improduttività rappresenta un antidoto a quel mito del progresso che ci vuole efficienti, rappresenta la cura nei confronti di quella terribile malattia che è l’egoismo. La povertà è costitutiva della stessa umanità, implica una debolezza, un’indigenza comune a tutti: nessuno si salva da solo, tutti hanno bisogno gli uni degli altri.
Dio stesso ha scelto la povertà in Cristo. Beato chi è nella condizione di poter amare. Non riusciamo a comprendere come funziona la sapienza di Dio: il dare tutto pur essendo bisognoso. Vogliamo essere ricchi e non vogliamo essere poveri. Beati i poveri di spirito! Noi poveri, tutti. Per San Francesco, la povertà è collegata alla fraternità: l’essere figli dello stesso Padre Creatore. È questa inoltre la prospettiva della rinnovata visione francescana: per vivere la fraternità è necessario svuotarsi di sé e non possedere nulla di proprio, imparare a ricevere da Dio. Insieme. Io sono povero, l’altro è povero. Il senso del Natale: il dono della povertà.